GLI INNI NAZIONALI
Un tema e tante variazioni, di Giulio Paternoster
A un certo punto nella storia gli inni iniziano a essere in gran voga. Non tanto quelli eruditi della cultura greca antica, né tanto quelli religiosi della tradizione cristiana, ma gli inni nazionali, che delle forme innodiche più antiche prendevano il piglio alto e solenne, ora di argomento patriottico, e l’abitudine a mettere in musica il testo poetico.
Nasce lo stato-nazione insomma, e serve fissare l’idea di uno spazio culturale definito che si possa riconoscere in specifici rituali, che possa stringersi “a coorte” identificandosi in un inno e una bandiera. E da lì i testi roboanti, sovente bellicosi – talvolta proprio pulp come nel caso della Marsigliese-, che caratterizzano gli inni più noti.
Ma in fondo quelle sono solo parole, che connotano in una determinata situazione storica melodie che hanno vita autonoma, temi musicali dal carattere particolarmente incalzante e maestoso, che nel corso del tempo diventano un simbolo, di volta in volta piegato alle esigenze politiche e culturali. Abbiamo parlato della Marsigliese, che nasce come canto di chiamata alla guerra contro l’Austria, ma la carica emotiva che è in grado di trasmettere va al di là della sua funzione d’origine: la musica si fa simbolo e travalica i confini nazionali, è il canto di riferimento del primo movimento operaio prima della comparsa dell’Internazionale, si traduce in altre lingue e in altri contesti politici, come al tempo della Comune di Parigi, quando presenta un testo nuovo: Chantons la liberté/Défendons la cité/Marchons, marchons, sans souverain/Le peuple aura du pain.
La musica è sempre la stessa e porta con sé un significato che si riverbera nel tempo. Con un testo in russo sarà il primo inno adoperato dopo la Rivoluzione di Febbraio, e anche in questo caso verrà sostituita dall’Internazionale, canto più radicato nell’immaginario social-comunista, dopo la fase rivoluzionaria di Ottobre.
Prima della Rivoluzione però la Russia appariva come qualcosa di completamente diverso, e il suo inno presenta una formula che ci è famigliare: “ Dio salvi lo Zar”. Oltre al testo l’impero zarista mutuò dall’inno britannico anche la musica, almeno fino a che lo Zar non reclamò, nel corso dell’Ottocento, una melodia che fosse più russa.
L’inno britannico ha avuto fortuna nel suo genere ritagliandosi il ruolo di archetipo, in un certo senso simbolo di una tipologia innodica celebrativa del potere sovrano, mentre la Marsigliese è la controparte per gli inni libertari. Oltre all’impero russo, anche gli Stati Uniti utilizzavano la melodia inglese nella versione “God save Washington”, e poi altri tra cui il Liechtenstein, che ancora oggi canta il suo inno sulle note di quello inglese.
Ma torniamo alla Russia, che fa un po’ da perno del discorso. La rivoluzione è fatta è l’inno adottato è l’Internazionale, ma quando la Germania nazista apre il fronte orientale (e i Russi definiscono il secondo conflitto mondiale “ grande guerra patriottica”) si sente l’esigenza di un inno più personale e coesivo. L’inno sovietico è in grado di comunicare energia e grandezza come pochi , e la Russia post-sovietica ne mantiene la musica. Quanto al testo, è cambiato tre volte in 60 anni, ma sempre, curiosamente, a opera del poeta Sergej Michalkov. Dal testo del periodo bellico, che esalta le figure di Lenin e Stalin, si passa al testo nel periodo di destalinizzazione, in cui si menziona il solo Lenin, fino alla versione odierna che propone valori assai differenti.
Alla musica ufficiale sovietica si collega facilmente il leggendario coro dell’Armata Rossa, tristemente vittima di un disastro aereo pochi anni fa. Un momento fortemente simbolico che appartiene alla storia li vede sul palco di Potsdamer Platz con l’ex-Pink Floyd Roger Waters, l’estate 1990. Nella piazza berlinese che meno di un anno prima era divisa dal muro il coro delle forze armate sovietiche canta un brano, “ Bring the boys back home” ( traccia del famoso concept album dei Pink Floyd, particolarmente appropriato per quella sera, “The Wall”), una specie di inno, ma che esorta all’antimilitarismo e all’unione, dopo tutto quel che era successo.
Infine, vogliamo ricordare un altro inno e un altro palco, quando Jimi Hendrix suonò l’inno americano a Woodstock, sporco distorto e scordato, cercando con gli effetti della chitarra di simulare il suono delle bombe che gli Stati uniti sganciavano sul Vietnam.
Le note sono sempre quelle, come fosse a una parata militare, ma attraverso la sua esecuzione, i suoi effetti scenici e sonori, Jimi comunica con forza e immediatezza qualcosa di nuovo. La tradizione monolitica dell’inno viene piegata ai suoi mezzi espressivi, l’inno è simbolo e nelle mani di Hendrix assume un nuovo profilo, diventa l’atto di protesta contro le guerre imperialiste, contro il mondo militare a cui normalmente è associato un inno, ma che Jimi reclama anche per sé e per i suoi valori, perché è anche il suo inno.
GLI INNI NAZIONALI
Un tema e tante variazioni
di Giulio Paternoster
La Marsigliese della Comune parigina
Inno nazionale del Liechtenstein, sulle note dell’inno britannico
Articolo su Sergej Michalkov, il paroliere degli inni sovietici e dell’inno russo
Inno nazionale russo eseguito dal coro dell’Armata Rossa
Il Concerto di Waters a Berlino, servizio televisivo del 1990
Bring the Boys Back Home, traccia dell’album The Wall dei Pink Floyd
Inno americano di Jimi Hendrix a Woodstock
Hendrix a proposito del suo inno “non ortodosso”