di Cristina Meini
La prima riflessione sulla musica, almeno nel mondo occidentale, è attestata nel filosofo Pitagora, che visse a cavallo tra il VI° e il V° se- colo a.C. Forse ispirato – narra la leggenda – dall’aver casualmente prestato attenzione ai suoni prodotti da un fabbro al lavoro, Pitagora notò e per primo teorizzò la corrispondenza tra rapporti numerici e suoni. Per mettere alla prova e perfezionare le sue intuizioni costruì un monocordo (una corda tesa tra due ponticelli) e ricavò, interponendo una stanghetta rispettivamente al centro, ai 2/3 e ai 3/4 della corda, prima l’ottava e quindi l’intervallo di quinta (quello tra il DO e il SOL, per intenderci) e di quarta (DO-FA).
Il posto della musica nel sistema pitagorico è stato enorme, fondativo: alla ricerca, come i suoi “colleghi” presocratici, della sostanza primigenia (archè), egli la individua proprio nell’armonia determinata dai rapporti numerici tra le note, a fondamento dell’ordine matematico del cosmo. I pianeti si muovono secondo precisi rapporti matematici e, nel far ciò, generano un suono perfetto che tuttavia noi, essendovi da sempre immersi come in un brodo sonoro primordiale, non riusciamo a percepire.
Circa un secolo dopo Platone, scrivendo il Timeo, si colloca sulla medesima scia ponendo la scala musicale a fondamento numerico dell’anima del mondo. Al contempo, però, Platone inaugura l’analisi essenzialmente politico-sociale dell’impatto emotivo della musica, sistematizzata nel III libro della Republica nella celebre invettiva contro i modi musicali che rendono molle l’animo umano e nella complementare promozione dei modi atti a sollecitare azioni virili.
Ma di questo abbiamo già chiacchierato in altre occasioni. (newsletter n. 24, 44, 46).
Anche il medioevo è epoca di grandi riflessioni, soprattutto in termini cosmogonico-teologici (Boezio), ma non solo (Agostino). Ma andiamo direttamente al 1616, quando Cartesio pubblica un’opera “minore”, il Compendium musicae. Da grande scienziato qual era, Descartes perfeziona la conoscenza dei fondamenti numerici della musica, traducendo – in accordo con il suo lavoro fondativo della geometria – i numeri in segmenti di linee. E tuttavia il centro del suo interesse è lo studio delle caratteristiche del suono che lo rendono commovente. Rapporti numerici al servizio di uno studio delle emozioni, quindi. Con ciò, Cartesio si inscrive non nella linea puramente cosmogonico-metafisica inaugurata da Pitagora, ma piuttosto nella “prototeoria degli affetti” delineata da Platone. Un interesse genuino per gli affetti in sé, questa volta, non per il loro portato politico-sociologico come era stato nella Repubblica.
Anche di questo abbiamo già chiacchierato, e anzi a una riflessione contemporanea sugli affetti abbiamo dedicato un libro: Il Pentagramma Relazionale.
C’è però un aforisma filosofico sulla musica che più di altri è diventato celebre, quasi “virale”. A scriverlo è, un secolo dopo il Compendium cartesiano, Gottfried Wilhelm Leibniz, che in una lettera al matematico tedesco Christian Goldbach afferma: “Musica est exercitium arithmeticae occultum nascientis se numerare anima” (La musica è un esercizio occulto dell’aritmetica, nel quale l’anima non sa di calcolare). Qui, come nella tradizione platonica e più esplicitamente cartesiana, l’interesse è per la persona e non per il cosmo, ma l’accento cambia ancora, e in maniera significativa. La formula “l’anima non sa di calcolare” è suggestiva in sé, ma assume un significato particolare se mantenuta nell’alveo originale leibiziano e da qui ricondotta alla sua nozione di “piccole percezioni”. Perché Leibniz ha inventato l’inconscio contemporaneo, inteso non come il rimosso freudiano (un sapere conscio messo da parte perché emotivamente inaccettabile), ma piuttosto come l’attività mentale che precede ciò di cui siamo coscienti. Leibniz sta dunque esponendo, con quasi quattro secoli di anticipo, le basi teoriche dell’odierna scienza cognitiva: la mente come una sorta di calcolatore che non sa di calcolare. Nel caso del calcolo musicale, richiamando sulla scena tutti i nostri “eroi” potremmo descriverlo così: come Pitagora, Platone &C. ci hanno mostrato, il suono intonato scaturisce da precisi rapporti matematici. Quando il nostro apparato uditivo accoglie tali suoni, l’esperienza cosciente che ne deriva costituisce solo la punta di un iceberg fatto di processi mentali più semplici di cui non abbiamo coscienza, ma di cui ci accorgiamo quando osserviamo l’attività cerebrale o le caratteristiche di pazienti cerebrolesi.
Al pari del pensiero di Platone e Cartesio, dunque, anche la teoria leibniziana della musica ci interessa oggi prevalentemente dal punto di vista psicologico. In particolare, se i due primi autori possono arricchire la riflessione nell’ambito della psicologia delle emozioni e, di conseguenza, della pratica clinica, Leibniz è fonte di ispirazione per la psicologia cognitiva. Una distinzione, quella tra cognizione ed emozione, con un fondamento storico e anche metodologico, ma che tuttavia oggi è largamente superata e confluita in una prospetti va più ampia ed integrata. In ambito musicale, adottare una visione più completa significa concepire i suoni come fenomeni percettivi largamente inconsci e da studiare sperimentalmente, ma al contempo capaci di suscitare quelle emozioni la cui natura deve essere indagata per poterne ricavare, tra l’altro, protocolli di intervento clinico scientificamente fondati. In questa direzione si è sempre mossa la ricerca di Cantabile.