L’idea e le premesse teoriche
di Giorgio Guiot
Quando all’inizio degli anni ’90 divenni direttore dei Piccoli Cantori di Torino, mi resi presto conto delle grandi potenzialità musicali che i bambini e i ragazzi acquisivano con la pratica corale grazie alla formazione musicale con il metodo della lettura relativa. Mi sorprendevano continuamente la loro capacità di controllo dell’intonazione e il saper immaginare e anticipare il suono che avrebbero dovuto produrre.
Un giorno mi imbattei in una stimolante definizione dello strumento musicale: lo strumento può essere interpretato come protesi del proprio corpo. Offre la possibilità di proiettare all’esterno e dare corpo all’idea sonora che abbiamo dentro di noi. Avanzai allora un’ipotesi che –per quegli anni- pareva quasi ardita: sarebbe stato possibile per dei bambini musicalmente educati, senza competenze pratiche strumentali ma con un orecchio interno molto sviluppato e buone competenze corali (e tra queste la conoscenza della propria voce e la capacità di immergersi in una polifonia), avvicinarsi contemporaneamente a più strumenti? Tra le tante proposte, avrebbero trovato la loro protesi ideale, che avrebbe consentito loro di esprimersi al meglio? Oltre alle particolarità tecniche di ciascuno strumento, che di certo richiederanno studio e applicazione, sarebbero riusciti a fare subito esperienza di musica d’insieme con composizioni molto semplici?
Le domande erano interessanti e per me, fresco diplomato di Conservatorio e ormai rassegnato a ore e ore di studio personale dello strumento, quasi provocatorie: nella mia infanzia avevo “indovinato” il mio strumento musicale, oppure avrei potuto scoprire che con un altro tipo di strumento sarei riuscito a suonare con maggiore naturalezza?
In quegli anni molti miei amici avevano vissuto esperienze simili: oboisti che avevano dovuto cambiare strumento per motivi respiratori, o di conformazione del labbro, mediocri studenti di violino che erano diventati eccellenti strumentisti a fiato… Nacque allora la settimana strumentale, laboratorio di più giorni in cui tutti i bambini e i ragazzi erano invitati ad avvicinarsi a strumenti differenti (come tecnica di emissione, dimensioni, materiale…) per proiettarsi immediatamente nella musica di insieme.
Individuai alcuni insegnanti ricercando soprattutto persone appassionate della musica di insieme e possibilmente anche coristi, più che buoni tecnici, e ci tuffammo in questa bellissima e faticosissima esperienza estiva.
Presto i risultati confermarono l’ipotesi: alcuni bambini erano effettivamente attratti da uno strumento particolare tra i tanti proposti, dimostrandosi subito adatti alla fisicità necessaria a quell’approccio, mentre altri bambini che avevano grande facilità di emissione vocale risultavano poi impacciati nella coordinazione motoria. Altri ancora erano molto bravi con più strumenti (per la disperazione della famiglia, che nel giro di pochi anni fu costretta ad acquistare una mezza orchestra…).
Rapidamente l’esperienza si perfezionò sempre più a livello organizzativo (grazie soprattutto ad Agnese, Ann e agli altri genitori che si avvicendarono negli anni), ma forse dopo i primi anni perse in parte l’aspetto di novità e originalità dell’approccio: la partecipazione venne infatti aperta a tutti i bambini –anche a quelli non ancora musicalmente pronti– come sorta di avvicinamento intensivo allo strumento e auspicato avvio di un percorso di studio da perfezionare nel corso dell’anno scolastico. Penso però che la settimana strumentale nelle sue venti edizioni sia sempre stata una esperienza che tantissimi ragazzi, giovani e famiglie hanno vissuto con piacere: da parte mia è sempre vivissimo il ricordo dello stupore che si coglieva nei concerti conclusivi, quando con estrema naturalezza e semplicità si potevano ascoltare programmi musicali articolati, vari e divertenti.